SEPPUKU (1962) E KAIDAN (1964): DUE FILM DI MASAKI KOBAYASHI
In questo articolo tratterò di due film del regista giapponese Masaki Kobayashi (1916-1996), autore molto importante nella storia del cinema del Giappone, anche se non seminale come la triade Kenji Mizoguchi-Yasujiro Ozu-Akira Kurosawa, a cui se ne potrebbe aggiungere un quarto il cui riconoscimento internazionale è appena sotto gli altri tre, vale a dire Mikio Naruse.
Ecco, Kobayashi fa parte di una generazione intermedia, se così possiamo dire, quella che viene dopo quella dei quattro grandi sopra citati ma prima della "nuova generazione" della Nuberu Bagu (il Nuovo Cinema Giapponese degli anni Sessanta) con nomi quali Shohei Imamura e Nagisa Oshima in primis, ma anche Hiroshi Teshigahara, per tacere di altri, a cui potrei aggiungere in posizione defilata ed anomala il regista erotico-politico Koji Wakamatsu.
Cinema critico-politico quello di Kobayashi attraversato da un afflato di pacifismo e socialismo umanitario. Attitudine critico-politica già ben visibile nel suo "Seppuku", appunto, uscito il 16 Settembre 1962, film ambientato nel 1630 su un samurai che chiede di fare harakiri all'intendente di una famiglia nobile; il film è costruito anche tramite l'uso del flashback e risulta essere anche una disamina del codice dei samurai, del potere, delle gerarchie, della decadenza di certi codici e rituali. "Seppuku" è un film dallo stile marcato, l'uso del flashback atto a SPEZZARE LA CONTINUITA' NARRATIVA, ad AGGANCIARE I PIANI TEMPORALI AD ACCOSTARLI SUL PIANO DEL SENSO, e come ho scritto sopra in questo film Kobayashi "smonta" il mito del codice d'onore dei samurai privilegiando invece l'aspetto umano ed emotivo.
In una intervista del 1963 sul film, Kobayashi dichiara di avere voluto fare un film attuale e contemporaneo sulla lotta contro il potere. In questo modo, dunque, il regista prosegue il suo discorso contro il potere, la sua analisi critica del potere. Film, in un certo senso anche molto razionale, "Seppuku" proprio nella sua messa in scena rigorosa la quale bene evidenzia l'analisi critica impietosa, lucida, demistificatrice, in tal modo il Bushido, vale a dire il codice di onore del samurai viene messo a nudo.
Il tipo di messa in scena, lo stile si fanno, anche in questo caso, MANIFESTAZIONE DI UN DISCORSO. Invece, nel film "Kaidan", uscito il 29 Dicembre 1964 ci muoviamo in tutta un'altra atmosfera visiva, dato che siamo alle prese con un film che per comodità potremmo definire Horror. Dalla lunghezza di quasi tre ore "Kaidan", suddiviso in quattro episodi, "I Capelli Neri", "La Donna della Neve", "Hoichi Senza Orecchie", e "In Una Tazza di Tè", il film è dotato di un altissimo profilo visivo e di uno sperimentale del colore, virato (in molte scene) in senso espressionistico.
Il film si ispira ad alcune vecchie leggende e storie di fantasmi (di cui il Giappone è particolarmente ricco, da qui anche il fiorire del Nuovo Cinema Horror Giapponese degli anni Novanta e primi anni Duemila). Molte volte è stato evidenziato l'uso del colore nel film, ma poche volte, mi pare è stato evidenziato un altro aspetto, a mio dire molto importante del film: l'uso del sonoro, dei suoni, talora resi in modo ritmico. Il CONGIUNGIMENTO VISIVO-SONORO, LA LORO DISTORSIONE CONGIUNTA RAFFORZA IL SENSO STRANIANTE DELL'INTERO FILM E DEI SINGOLI EPISODI.
Inoltre il ritmo del film è molto lento, contemplativo, del tutto anti-spettacolare. "Kaidan" può essere considerato pienamente un Horror (e io lo considero tale) proprio nella sua sottile resa straniante di eventi e situazioni e nella sua rappresentazione del soprannaturale, e credo anche che solo in un'ottica superficiale e semplificatrice del Film Horror "Kaidan" non possa essere annoverato fra gli Horror proprio a causa del suo ritmo contemplativo e la sua estraneità ai colpi di scena.
In "Kaidan" è presente anche una resa scenografica importante, una valorizzazione dell'architettura di abitazioni ed edifici giapponesi, assistiamo ad una resa geometrica di tali spazi.
Ecco, lo snodo cruciale del film,a mio avviso risiede proprio qui; vale a dire nella centralità assoluta della resa trasformatrice di luoghi, eventi, situazioni, o meglio, nella resa deformante e straniante, ponendo l'accento però ancora di più proprio sulla nozione di resa. Il senso di inquietudine che si prova di fronte a questo film è dato proprio dalla sua resa formale e stilistica.
Ed io ho scelto questi due film di questo grande autore cinematografico, proprio perchè, a mio avviso, bene rappresentano la sua poetica e la sua stilistica.