MORTE A VENEZIA (1971)
"Morte a Venezia" di Luchino Visconti (1906-1976) uscì il 1 marzo 1971. Il film ben rappresenta la poetica viscontiana, ma sopratutto del tardo Visconti.
Il film fa parte, insieme a "La caduta degli dei" (1969) e "Ludwig" (1972) della cosiddetta trilogia tedesca, film incentrati su figure o vicende della Germania.
Luchino Visconti fu il regista cinematografico italiano più legato alla cultura del decadentismo e fu egli stesso un aristocratico esteta, il quale, forse, avvertì in tutta la sua drammaticità sulla propria pelle il conflitto fra il suo amore per l'immaginario decadente e la militanza fra le file del partito comunista.
La trilogia tedesca (1969-1972) fa da anticamera all'ultimissimo periodo, quello più estremo e disperato (1974-1976) con film come "Ritratto di famiglia in un interno" e "L'innocente" tratto dal romanzo di D'Annunzio e suo ultimo film.
"Morte a Venezia" fu tratto dall'opera omonima di Thomas Mann "La morte a Venezia" romanzo breve uscito nel 1912.
A mio avviso, rispetto agli altri due capitoli della trilogia tedesca, al film del 1969 e aquello del 1972, "Morte a Venezia" è il film meno sociale, il film in cui Visconti maggiormente tiene a freno, o forse bisognerebbe meglio dire il film in cui annulla l'afflato sociale.
In questo film, rispetto agli altri due non viene rappresentata una dialettica od una interazione fra personaggi e sfondo storico-sociale: il film tratta delle vicende di un uomo, di un artista (un musicista) alle prese con la decadenza e con la morte, ma in senso assoluto, direi SOVRA-STORICO.
A ben vedere tutto il cinema di Visconti è sempre oscillato fra le due polarità di drammi individuali ed affresco sociale, molto spesso intrecciati fra loro, e talvolta separati, come in questo caso; forse questo film è un unicum all'interno del corpus filmografico viscontiano proprio per queste caratteristiche.
Il film si incentra sull'amore omosessuale che il musicista protagonista, Aschenbach (interpretato da Dirk Bogarde) sente per un adolescente, al suo rimpianto per la giovinezza perduta (ed al tentativo disperato di conservarla) e alla morte per colera in seguito ad un'epidemia.
Egli muore rimanendo vicino all persona amata (a distanza), osservata con desiderio e struggimento: abbiamo a che fare con un amore maledetto, etereo e struggente e che culmina nell'atto della morte.
Ed è vero, come ha scritto Lino Miccichè che il giovane Tadzio rappresenta da "angelo della morte" la nostalgia, il rimpianto della giovinezza di Aschenbach, il suo desiderio struggente di serenità contemplativa, ed, aggiungo io il simbolo di un nirvana erotico-mistico e un annullamento dei sensi e della sensualità; Tadzio rappresenta lo SPAZIO INEDITO FRA VITA DEI SENSI E MORTE DEI SENSI, rappresenta la dimensione ulteriore ed irraggiungibile: il NIRVANA DELLA CONTEMPLAZIONE BEATA E FINE A SE STESSA.
Il film si incentra sulla figura di Gustav Mahler (1860-1911) grande musicista austriaco, ed alcune vicende personali del protagonista del film richiamano alla mente le vicende della vita di Mahler: la morte della figlia, ad esempio.
Molte musiche del film (anche se non tutte) sono opere di Mahler: il primo e il quarto movimento della Quinta Sinfonia, o il quarto movimento della Terza.
Il film rappresenta anche una punta avanzata della ricerca cinematografica "formalistica" in quanto Visconti perseguì strenuamente un connubio equilibrato ed espressivo fra suono e colore: a ben vedere il rapporto suono-colore può instaurare nuovi rapporti, nuovi inediti significati, un nuovo linguaggio cinematografico. Forse, da questo punto di vista, "Morte a Venezia" è il film più avanzato di Visconti, film che si libra su spazi inediti, inediti non nella rappresentazione, ma nei rapporti (fra le risorse del cinema, fra il suono ed il colore, in questo caso) che danno luogo alla rappresentazione, alla creazione di realtà, alla costruzione di atmosfera.
Comunque, se volessimo sintetizzare il film, potremmo dire che si tratta di un'opera sulla decadenza e sulla morte, sul rimpianto nostalgico della giovinezza. Con questo film, ripeto, Visconti accantona del tutto le istanze sociali, ben presenti in moltissimi suoi film, dal fologorante esordio di "Ossessione" (1943), a "Senso" (1954" a "Rocco e i suoi fratelli" (1960) per tacere di altri.
Il film è l'acme dell'estetismo e del decadentismo dell'aristocratico Luchino Visconti. Ma il film, secondo me, dipinge anche un anelito non solo, come ho scritto prima ad una VITA CONTEMPLATIVA, ma anche ad una vita inedita, proprio perchè assoluta, sganciata dal principio di realtà e tendente al principio di piacere, un nirvana ed una morte dei sensi, un trionfo del puro guardare e del puro godere.
In questo senso il film è fortemente critico (anche se in un modo paradossale ed eccentrico) della società e dell sue leggi, e addirittura del PRINCIPIO PSICHICO CHE LA REGGE.
La stessa centralità della musica (quasi sempre molto importante nei film di Visconti, ma in questo caso in modo particolare) è assai significativa: simboleggia l'anelito ad un principio di esistenza diverso, alternativo se non anti-logico (logico proprio nel senso di Logos, di Ragione Discorsiva) sicuramente pre-logico o post-logico: al DIRE E AL FARE si contrappone il GUARDARE, la pura visione estatica.
C'è, certo, da parte del protagonista una voluttà del declino, della degradazione, appunto: voluttà proprio in quanto trionfo, trionfo del declino; vita e morte si toccano, combaciano.
Una vita diversa che si muove su altri piani rispetto a quella quotidiana retta dal Principio di Realtà non può che trionfare morendo, la battaglia del protagonista è troppo audace, troppo radicale, troppo avanguardistica.
Forse il concetto di avanguardia fa da denominatore comune di tutte le articolazioni del film: musica d'avanguardia (Mahler), scelta di vita "di avanguardia" (quella del protagonista), ricerca sperimentale e "di avanguardia" (anche se non in senso stretto) quella che Visconti, uno dei maggiori registi del cinema italiano opera in questo film.