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DILLINGER E' MORTO (1969)


"Dillinger è morto", uscito il 23 gennaio 1969 è uno dei film più significativi ed emblematici di Marco Ferreri (1928-1997), ed emblematico proprio per quelle caratteristiche di "sgradevolezza" e di pessimismo (dai tratti disperanti) che contraddistinguevano il regista milanese.

Marco Ferreri negli anni cinquanta era un pubblicitario, di conseguenza vide dal di dentro i meccanismi del sistema capitallista e del consumismo. La critica al capitalismo, al consumismo, al sistema occidentale non lo abbandonò mai.

Lavora come pubblicitario in Italia, Francia e Spagna, finchè nel 1958 a Barcellona incontra lo scrittore spagnolo Rafael Azcona il quale diventa co-sceneggiatore dei primi film di Ferreri, tutti realizzati in Spagna: "El pisito" (1958), "Los chicos" (1959) e "El cochecito" (1960), tutti segnati da uno humour nero caustico e beffardo.

Prosegue poi la sua carriera in patria dove gira film grotteschi come "L'ape regina" (1963) e "La donna scimmia" (1964) entrambi interpretati da Ugo Tognazzi (e non è un caso che uno degli attori ferreriani era proprio Tognazzi, maschera della commedia all'italiana, i legami del cinema di Ferreri con la commedia all'italiana sono, a mio avviso, nascosti ma presenti).

Ferreri ha abbandonato l'humour nero (di marca iberica) del 1958-1960 per approdare sui lidi di un cinema grottesco ad inizio-metà anni sessanta ed infine ad un film disperato (e disperante), cinico ed impietoso nella sua "freddezza" come "Dillinger è morto".

Si tratta davvero di un film maledetto: osteggiato all'epoca della sua uscita a causa della violenza gratuita l'opera ha goduto anche di pochissimi passaggi televisivi.

Il film tratta di un omicidio gratuito compiuto da un ingegnere (interpretato da Michel Piccoli) ai danni della moglie e della sua fuga finale verso i mari del sud.

Il film presenta tutte le tematiche tipiche del cinema ferreriano: il rapporto uomo-donna, in primis, la presenza del cibo (come non pensare ad un altro film di Ferreri come "La grande abbuffata" (1973)!), l'ambiente claustrofobico, la fuga dal mondo.

"Dillinger è morto" sembra sistematizzare e radicalizzare tutte le tematiche del cinema di Ferreri.

Poichè si tratta davvero di un film sperimentale e che non concede nulla allo spettatore, il piano narrativo è completamente destrutturato, SVUOTATO DEL SUO SENSO E SIGNIFICATO.

Il film è anche un grido di guerra contro una narratività forte e troppo pronunciata, qui il senso circola in modo libero ed evanescente.

Un film contro la progressione logica, quindi. Ed infatti si tratta di un film semi-muto, si parla pochissimo, Ferreri si muove contro il LOGOS, contro il senso univoco che si modella nella parola, in quest'opera a parlare sono i movimenti del corpo, sopratutto.

Nel film, infatti, assumono un'importanza fondamentale i gesti, i movimenti (i liberi ed illogici gesti e movimenti del corpo), in una parola il GIOCO, solo che si tratta di un gioco deviato, del tutto privo di innocenza, perverso (il girovagare "giocoso" del protagonista attraverso la sua abitazione sfocia nel delitto gratuito, come bene si può vedere nella foto postata sopra).

Come è stato evidenziato da più parti (anche da Adriano Aprà, ad esempio) il film di Ferreri ha radici neorealiste, e dialoga da un lato con il neorealismo di Rossellini, dall'altro con il neorealismo di De Sica-Zavattini.

Il girovagare per casa di Michel Piccoli prosegue il girovagare (con una pistola) del piccolo Edmund fra le macerie di Berlino in "Germani anno zero" (1948) di Roberto Rossellini.

La casa, nel film di Ferreri è forse, davvero una casa già ridotta a maceria, popolata di morti (la morte fisica ed effettiva della giovane moglie, la morte interiore e per "alienazione" del protagonista).

Ferreri rappresenta la morte dell'uomo borghese ed occidentale, il suo stato di alienazione, i suoi falsi miti.

Ma con questo film Ferreri instaura un dialogo anche con il neorealismo di De Sica-Zavattini proprio riguardo alla poetica del pedinamento: la cinepresa pedina Michel Piccoli, lo tallona, lo studia; in questo senso il film è un'analisi fredda, impietosa, clinica di un personaggio-simbolo.

Ma il film fa deflagrare il neorealismo ed il suo assunto di base (la rappresentazione della quotidianità e di fatti minuti) proprio in tutta la parte finale.

Se in "Germania anno zero" di Rossellini assistiamo all'innocenza che muore (la morte di Edmund) nel film di Ferreri siamo spettatori della morte dell'innocenza; il gioco del protagonista è un gioco mortale, manifestazione concreta del suo essere alienato (e con lui, se non altro, un'intera classe sociale).

Il finale del film è molto bello, completamente "illogico" ed assurdo: dopo l'omicidio il protagonista scappa di casa, si reca su una spiaggia deserta si tuffa in acqua (anche in questa scena, quale importanza assume la corporeità!) e si imbarca su una nave in partenza per Tahiti come cuoco.

La nave è governata da una giovane donna (qui assistiamo ad un'ambivalenza riguardo alla donna, la quale, nel cinema di Ferreri può assumere i connotati mortuari e di traghettarice verso il "regno dei morti" come, secondo me il personaggio interpretato dall'attrice Andrea Ferreol in "La grande abbuffata" oppure assumere connotati positivi, materni e vitali, anti-fallocratici).

Il finale rimane volutamente aperto ed ambiguo, così come, a mio avviso rimane aperto ed ambiguo lo sfondo rosso abbagliante ed accecante che tinge tutto lo schermo.

Il futuro è rosso? (Teniamo presente le dichiarazioni di simpatia per il comunismo e per la cultura marxista da parte di Marco Ferreri, anche se in un modo del tutto personale ed eterodosso) oppure rosso come deflagrazione nichilistica e totale del vecchio cinema dei padri (neorealisti, De Sica e Rossellini) del mondo borghese, dell'umanità tutta?

Il quesito rimane aperto, così come il valore simbolico che riveste la giovane donna sulla nave: sorta di Caronte femminile o forte presenza alternativa al potere maschile, alienato e fallocratico?

Il film, come tutti i grandi film, suscita domande più che fornire risposte.

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